Associazione professionale Proteo Fare Sapere

Progetto accoglienza di bambine e bambini ucraini

Cresce il flusso di bambini e ragazzi dall’Ucraina e il Ministero inciampa clamorosamente in un errore politico e pedagogico
di Dario Missaglia

Quando il Capo dipartimento del Ministero dell’istruzione, dottor Versari, ha diffuso alle scuole i primi provvedimenti, di natura organizzativa e pedagogica per l’accoglienza dei bambini profughi dall’Ucraina, abbiamo espresso nell’insieme un apprezzamento per l’approccio attento con cui si iniziava a delineare una strategia ministeriale consapevole della difficoltà dell’impresa e del carattere inedito della stessa. Abbiamo anche apprezzato il riferimento a quella “pedagogia del ritorno” che Proteo Fare Sapere aveva da subito indicato come sfondo della nostra proposta, politica e pedagogica. Il Ministero si è ben guardato dal citare la fonte ma questo non ci turba e non riduce il nostro apprezzamento.

Tutto ciò per affermare oggi il nostro sconcerto e radicale dissenso per alcune indicazioni date sempre dal dottor Versari con la nota del 14 aprile. Lascio al nostro Raffaele le considerazioni di natura più pedagogica, ma indicare alle scuole, come modello di riferimento per l’impostazione e la gestione delle attività di accoglienza, le norme relative ai bambini riconosciuti come “Bes”, è un clamoroso errore politico e pedagogico. È la conferma che il rischio burocratico che stravolge la realtà, soprattutto quella più complessa e dirompente, è sempre dietro l’angolo e si può nascondere anche nella punta della penna del burocrate di turno. La medicalizzazione del disagio scolastico ha prodotto guasti profondi al sistema di istruzione e oggi comincia a manifestare, anche per gli osservatori meno attenti, la sua natura non solo di  ideologia che assume una difficoltà nel processo di apprendimento come limite da curare (e non una scuola da cambiare) ma anche come mercato delle opportunità per una ridda di presunti specialisti pronti a farsi pagare la delega per l’appalto della gestione della sofferenza. È il mercato dei professionisti del dolore in azione. Applicare questo schema al processo di accoglienza dei bambini dell’Ucraina è sbagliato, fuorviante, politicamente inaccettabile.

Questi bambini non sono bambini “con problemi di apprendimento”, non hanno bisogno della ritualità di un “pdp” (piano didattico personalizzato); tantomeno chiedono o hanno bisogno di “strumenti compensativi e misure dispensative”. Ma quale cieca burocrazia può parlare questo linguaggio a bambini che stanno vivendo una esperienza drammatica della loro vita, strappati dalla loro casa, dai padri e talvolta anche dalle madri? Bambini e ragazzi che sono spesso e  tenacemente in rapporto con i loro insegnanti che fanno il possibile per tenere il filo di una relazione. Un filo che dobbiamo raccogliere e rafforzare. Quei contatti online sono il segno di affetti, radici che non si vogliono perdere, nostalgia del ritorno: non sono didattica online. Lasci il Ministero alla capacità delle scuole quella risorsa che è loro riconosciuta dal DPR 275/99 e che da tanti anni è svilita, soffocata, sempre rinviata. Faccia vivere il Ministero la libertà della pedagogia della cura da parte dei docenti e dei dirigenti che vogliono impegnarsi, assicurando alle scuole mezzi e risorse richiesti.

Se vogliamo le scuole aperte in estate, e Proteo Fare Sapere continua a sostenere questa opportunità, inizi il Ministro a dire su quali risorse le scuole potranno contare per cominciare a programmare le loro attività. E soprattutto, un bilancio dell’esperienza dello scorso anno sarebbe un’utile e doverosa premessa; in quale entità e a chi sono andati i finanziamenti del Ministero?

Nell’attesa di vedere pubblicato il resoconto di quella esperienza, che il messaggio sia chiaro: centralità al ruolo delle scuole pubbliche e dei suoi operatori, pronti a costruire progetti e patti con le associazioni e il volontariato che crede nella necessità di riscostruire l’identità di un territorio scommettendo sul ruolo fondamentale della scuola pubblica.

 

Ucraini a scuola in Italia, tra chiacchiere e ciccia
di Raffaele Iosa

Storia 1

Alina, quasi 13 anni, profuga ucraina in Italia. È collegata online in Dad con la sua vchytelka* Svetlana dall’Ukraina, in un posto che non si può dire. Fanno algebra, sullo schermo le finestrelle dei compagni sparsi per l’Europa sorridono e salutano. Ad un certo punto Svetlana dice ai suoi ragazzi: “Oh, oh, suona la sirena, forse arrivano bombe. Io vado a nascondermi e spengo, ma voi state in attesa, può darsi che duri poco”.  Alina spegne il computer e piange disperata, va in crisi.  Non vuole più riaprire il computer, ha paura per la sua vchytelka. La mamma, Olga, ha un’idea: scrive un SMS a Svetlana raccontando di Alina. E dopo un’ora arriva una mail. È Svetlana,  mette una sua foto e scrive: “Io sono qua, vedi che sto bene?”. Ma la mail non finisce qui. Con uno spirito che un insegnante italiano stile Candy Candy chiamerebbe sadico, la nostra vchytelka  manda alla sua alunna… i compiti di algebra da fare per casa…”.  Effetto: Alina si tuffa nei compiti, perfino canticchia. Resilienza di quelle toste.

Se mamma Olga avesse telefonato ad uno psicologo italico le avrebbe proposto una psicoterapia, se avesse chiamato un neurologo una buona dose di goccette di valium.

* Vchytelka, o vchitel se maschio, è il nome di tutti gli insegnanti ucraini dalla scuola dell’infanzia alla scuola superiore. Non esiste divisione tra maestri e professori.

Quello che ho appena scritto accade a migliaia di bambini e ragazzi ucraini, soprattutto quelli dalla classe 5 in su, che ogni giorno o quasi si collegano in Dad con le/i loro vchyteli  dall’Ukraina. Non a tutti, fin che si può, ma a moltissimi sì, al punto che un buon numero non va neppure alla scuola italiana perché considera sufficiente e necessario continuare e finire l’anno scolastico in Dad o con le lezioni asincrone dall’Ukraina. Un ulteriore segno di resistenza e di voglia di tornare a casa di questo strano popolo.

Ne racconto qui perché sono rimasto amareggiato da come questa sorprendente esperienza della Dad  sotto le bombe venga poco considerata dalla recente nota MI del 14 aprile, in quel capoverso inerente i  curricoli che dovrebbero fare gli insegnanti per questi ragazzi.

 

Al capoverso dal titolo Piano educativo personalizzato si scrive così:

Nell’ambito dell’esercizio dell’autonomia didattica e organizzativa, le istituzioni scolastiche potranno pure individuare attività di arricchimento formativo consistenti nell’accesso a materiali ed attività didattiche on-line riferibili al curricolo ucraino”.

La Dad ucraina come “arricchimento accessorio”, e se si vuole?

Premetto che ho un’opinione in complesso positiva di questa nota di carattere organizzativo, perché abbonda di suggerimenti per consultare piattaforme italiane, ucraine, europee piene di materiali informativi e didattici online per saperne di più della scuola ucraina e di cosa serve a questi ragazzi. Fonti da leggere per scegliere che fare per chi a scuola li accoglie. Sono una fonte, assieme alla Dad ucraina in corso,  per capire cosa rabboccare per loro in questi pochi giorni ancora di scuola: semplicemente “seguire” il loro curricolo ucraino, lavorarci in parallelo e “arricchirli” noi (e non loro!) con quello che non può viaggiare in digitale. In fondo si tratta di pochi giorni alla fine dell’anno scolastico.

Ma le poche righe sulla didattica incredibilmente rovesciano il punto di vista: a noi il Santo Curricolo italico anche se per pochi giorni, a loro il contorno. Scelta incomprensibile, ambigua anche sul possibile futuro inclusivo per l’anno scolastico prossimo. Nelle poche righe di quel capoverso vi sono due argomenti “operativi” formalmente giuridici. Il primo per considerare questi alunni come BES (e di questo parlerò dopo), il secondo appunto quello di cui scrivo qui sulla Dad ucraina intesa come “arricchimento”.

Cioè come fosse una gita scolastica, la visita a un museo, uno spettacolo teatrale alla festa della proloco, un corso opzionale di body building. Cioè cose che se si vuole si possono fare forse ai sensi dell’art.9 del DPR 275/99, Regolamento autonomia. Cose cioè extracurricolari, che non danno voti, ma al massimo una citazione su un certo “curriculum dello studente”. Chiamate perfino “arricchimento formativo” e non come forse sarebbe giusto dire “ampliamento”.

Insomma cose extra, se si vuole e si può. Infatti la nota non a caso dice chiaro un “potranno pure”. Che, per carità, sa di una benevola autonomia per le scuole, ma che manda messaggi opachi e pilateschi verso il senso tragico di questa fase della vita e della scuola di questi ragazzi in fuga.

Una versione legalistica del “che fare” a scuola per loro che contrasta con la bella nota MI del 24 marzo scorso, quella pedagogica, dove si tratta seriamente di cosa sono questi mesi per questi ragazzi, sulla lentezza e l’ascolto, quella dove ci sono due frasi  che ben ci sarebbero state  invece a  proposito della Dad  ucraina e che qui riprendo:

                       …..una prima fase di tempo lento per l'accoglienza, fino alla conclusione di questo anno scolastico, volta primariamente alla ricomposizione di gruppi di socializzazione, all'acquisizione di prime competenze comunicative in italiano, all’affronto dei traumi e per quanto possibile a dar continuità ai percorsi di istruzione interrotti;

                       …..Ponderare non significa ritardare l’essenziale, quanto piuttosto assumere le determinazioni necessarie avendo contezza degli effetti. Si tratta dunque di bilanciare benefici e rischi. Non tutto quello che “pare giusto”, effettivamente fa il bene dell’altro.

Dunque: la Dad ucraina segue il curricolo interrotto? Forse si, e benedetta dove c’è… Ma ancora: possiamo ignorarla o considerarla un accessorio opzionale anche se al ragazzo e alla sua vchytelka pare esistenzialmente indispensabile? Forse no, ma si fa se si vuole, è accessoria. Il contrasto tra la nota del 24 marzo e quest’ultima è notevole.

I ragazzi ucraini tra i buro-pedagoghi e i pedo-pedagoghi. Bizzarrie italiane

Una breve riflessione più generale sul senso giuridico, pedagogico, ma anche politico, di queste poche righe. Mi sono convinto (da vecchio del mestiere) che questi due concetti  operativi molto diversi dalla nota pedagogica del 24 marzo  siano dovuti (e perfino li capisco) alle mille sollecitazioni, quesiti, domande affannose, provenienti dai buro-pedagoghi delle scuole (non solo presidi) che in questo trambusto inedito chiedono lumi giuridici tipo:  “Faranno le prove Invalsi?” o anche “ Ma devo dargli voti?” o ancora “deve fare anche il francese seconda lingua?”, o ancora “le ore di scuola come le conto?”, e peggio di tutte “quando fa la Dad ucraina devo registrarlo come assente?”.

Il mondo della scuola, dal viale di Trastevere alla piccola scuoletta si divide da sempre tra buro-pedagoghi e pedo-pedagoghi.  I buro pedagoghi pensano che tutto l’educativo debba entrare in articoli, commi, decreti e così via. Fondano la scuola sull’applicazione di norme non sulla progettualità, per natura flessibile. Una sub variante dei buro-pedagoghi sono i buro-disciplinisti, quelli che “io spiego, tu ascolti, poi ti interrogo; se sai bene, se no male. Dei tuoi casi personali io non c’entro”. Mastrocola insomma. Invece i pedo-pedagoghi pensano che le norme siano cornici, più ampie sono meglio è, ma quello che conta è il gesto pedagogico nella vita reale. Una sub variante dei pedo-pedagoghi sono quelli che “ho la libertà di insegnamento, quindi faccio quello che voglio”. Scordando che la scuola è comunque un’organizzazione e che nessuno insegna da solo.

Quando stavo al Ministero, più di 20 anni fa, erano frequenti battute ironiche verso di noi  “tecnici”  che da pedagogisti eravamo detti quelli della “chiacchiera”, mentre invece “loro”, gli amministrativi,  erano quelli della “ciccia”, quelli che il comma mette tutto a posto e imbraga le nostre troppe chiacchiere. Ma comandavano loro.

È interessante notare che dopo il DPR 275/99 cioè l’autonomia, che bene o male doveva ridimensionare la “ciccia”, questa si è abbondantemente ripresa il potere tradizionale. Mai come in questi 20 anni è piovuta “ciccia a go go”, norme e commi anche pignoli, vincoli e sigle. Una marea di atti amministrativi che però non hanno dato pace alla scuola, ma anzi alimentato la conflittualità, fatto ricchi gli avvocati, implementata la confusione. Anche un buon numero di sindacalisti si sono vestiti da buro-sindacalisti, diventando più un CAF che promotori di valori professionali. Un esempio tra i tanti è la permanenza dei provveditorati come terminale amministrativo a sberleffo delle scuole autonome. Il buro-pedagogese è tema complicato, e capisco quindi che ai buro-buro romani assediati dai quesiti è sembrato  opportuno offrire un ombrello giuridico di basso conio. Attribuendo agli studenti ucraini la categoria di BES e quindi l’uso della metafisica dispensa e compensa si rende possibile derogare a (quasi) tutto. Cioè li si “ammala” per dissetare le fobie dei buro-pedagoghi che così li lasceranno almeno in pace, perché hanno la “carta” che tutto permette, il buon PDP. E sulla Dad ucraina, perché no? Purché ovviamente la si consideri “facoltativa” di “arricchimento” ma non dentro al Sacro e Inviolabile confine del Curricolo”.  L’ultimo Piave.

Capisco che forse si è pensato che, tra costi e benefici, fosse più semplice trattare il curricolo ucraino da contorno e i nostri profughi da BES.. Una scelta, diciamo così, del male minore, ma che così perpetua l’ambiguità di una scuola governata sul comma. Una specie di pedagogia difensiva di tutt’altro tono della nota pedagogica del 24 marzo.

Considero questa scelta sul curricolo “arricchito” sbagliata, che manda segnali negativi anche per come potrebbe essere il prossimo anno scolastico.

E invece… per una una visione civile e pedagogica verso i  ragazzi ucraini sarebbe  necessario rispettarli e aiutarli per il loro tanto desiderato ritorno a casa. L’unica soluzione possibile, pedagogica e politica, è  di accettare la loro Dad come elemento strutturale, e riconoscere che questa guerra (come il precedente del COVID)  apre scenari nuovi  a cui i nostri sistemi pubblici  devono rispondere in modo nuovo e inedito. Che per esempio si debba percorrere una via binaria del loro curricolo, un mix pensato e condiviso dalle parti italiane e ucraine, che renda loro possibile tornare in patria senza aver perso scuola ma anzi avendo anche qualcosa in più dalla nostra esperienza. La digitalità rende possibile molte cose, ce lo insegnano i non pochi materiali già presenti in rete. Ma non è tema opzionale, è tema strutturale. Come per il COVID, è evidente che il nostro apparato giuridico e formalistico della scuola non regge più. Anzi, dopo aver soffocato in culla l’autonomia, risulta sempre più contorto.

E chi andrà a dire alla vchytelka Svetlana che il suo lavoro sotto le bombe è gradito sì, ma è solo un accessorio, un bijoux, un passatempo? Lo scarto tra le buone parole pedagogiche del 24 aprile e questo giuridico della “ciccia” vincente è troppo grande perché io possa trascurarlo.

La questione del potere dei buro pedagoghi è, ovviamente, questione non burocratica ma prima di tutto politica e delle scelte di governo che si vogliono fare.

I ragazzi ucraini tutti BES?

Veniamo ora alla questione BES. La nota del 14 aprile dice al proposito cose lapidarie e precise. “Utile, per l’inserimento a scuola degli alunni ucraini, il riferimento alla direttiva ministeriale 27 dicembre 2012 in tema di bisogni educativi speciali e ai chiarimenti forniti con nota 22 novembre 2013, prot. n. 2563. Ivi si prevede, per gli studenti neoarrivati in Italia da Paesi di lingua non latina, la definizione di un Piano didattico personalizzato (PDP)”, oltre che l’adozione di strumenti compensativi e misure dispensative. Non sorprende che, per dissetare i fobici buro-pedagoghi, il MI abbia tirato fuori la Direttiva Rossi Doria del 2012.  Meno male che c’è almeno all’inizio quell’ “utile” che potrebbe anche dire “se si vuole”, ma il tono della nota va più sul prescrittivo che sull’esortativo.  E così lo stanno leggendo i buro-presidi, che dopo aver letto con un po’ di noia la nota pedagogica del 24 marzo dicono: “non ci sono soldi, non ci sono commi da rispettare, non si prevedono atti formali, quindi è chiacchiera, la passo al referente BES”, e ancora “questa del 14 aprile invece è ciccia. Quindi convoco collegi, consigli di classe, faccio fare un “modulo di compilazione” e chiedo entro x giorni un PDP per ogni ucraino. Sulla Dad se la vedano gli insegnanti, se ne hanno voglia, tanto non è obbligatorio. Quello che conta è avere le carte a posto” e poi infine “ah, convoco le RSU perché forse devo cambiare i soldi da distribuire per chi ci lavorerà” Non racconto fantasie, ho ricevuto numerose telefonate che mi raccontano cose così. In questo modo la nota del 14 aprile diventa cosa seria (la ciccia), e scolora il valore pedagogico di quella del 24 marzo (la chiacchiera).

Però l’ombrello giuridico protettivo funziona: chiamando i nostri ragazzi ucraini BES, tra dispensa e compensa tutto è possibile se le carte sono a posto.

 

Storia 2

Qui in fatto di BES, una seconda storia.  Evegenij è inserito in una seconda media. È cordiale e parla bene inglese. Viene messo vicino a Luigi detto Giggino, il più ruspante ragazzo della classe. I due fanno comunella. E Giggino, che ha una stravoglia di parlare con Evgenij, di pomeriggio studia follemente l’inglese perché si rende conto che non lo sa benissimo. I due sono uno spasso. Dopo una decina di giorni di chiacchiere, Evgenij dice a Giggino “Vorrei fare un selfie io e te insieme in questa classe, da mandare in Ukraina for my father and for my teacher. Voglio far vedere che sto bene. Si fanno il selfie abbracciati, e parte per l’Ukraina un messaggio “guardatemi, sto bene qui con il mio amico Giggino”. Ma Giggino non si tiene, è troppo gasato da questa foto, e la mette anche lui nel suo circuito scrivendoci sotto “sono qui con il mio nuovo amico Evgenij”.

Timori dei prof, anche se commossi dall’evento amicale: “Ma c’è la privacy” e poi “non si può fare foto a scuola” e poi “non si può avere il cellulare in classe”. Mi chiamano per un aiuto. Ecco, questo è il terreno di pastura dei buro-pedagoghi per utilizzare la normativa sui BES: Quindi Evgenij viene dispensato dal chiudere il cellulare a scuola perché lo usa sia come traduttore sia come  contatto per il suo online  sia anche (se pare poco) per ricevere notizie del padre rimasto lì in guerra.  Un po’ come la calcolatrice per i discalculici. L’ombrello BES protegge, la forma è rispettata. Ma al povero Giggino che facciamo? Una nota basta?”. Peccato che a nessun insegnante sia venuto in mente di discutere l’evento con tutti i ragazzi sul valore dei mezzi tecnologici odierni se usati bene, perché non sono il diavolo. E fare di Evgenij e Giggino un buon esempio (una best practice per i moderni) di amicizia e solidarietà. Che anche un cellulare può produrre. Prego di non ridere. Succede.

Come ci si ricorderà, la Direttiva Rossi Doria del 27 dicembre 2012 (ormai quasi appannata da un rituale e stanco tran tran) è stata seguita da un dibattito molto aspro, che ha costretto il capo dipartimento di quell’epoca Lucrezia Stellacci a precisare, a smussare, ad annacquare con più note alcune palesi distorsioni. Non è un caso che Versari, l’attuale capo dipartimento, sia stato costretto a citare anche la CM Stellacci 2563 del novembre 2013, quella che cita gli stranieri non latini (chissà perché, quindi non i tunisini francofoni) come affetti da BES che permette dispensa e compensa.  Una CM che sembra fatta apposta oggi per dare l’ombrello buro-pedagogico per i nostri ragazzini ucraini.

Per chi ogni tanto mi legge sa quante critiche io abbia sollevato sul tema Bes, e non tanto sugli aspetti formali ma su una questione psico-pedagogica importante che riguarda la filosofia BES e i suoi effetti nell’insegnamento-apprendimento. È ormai vasta la letteratura scientifica che critica questa tendenza iatrogena a classificare, connotare e delimitare le diverse condizioni umane entro categorie diagnostiche solo sintomatologiche che alimentano la diffusa medicalizzazione. Ma soprattutto determinano un abbassamento delle attese verso la persona classificata, che pervade gli insegnanti, le famiglie fino alle persone stesse. Un paradossale un gesto bonario che però produce diffusi effetti di tendenza all’assistenzialismo, al conservatorismo compassionevole, all’accontentarsi fino al dire di alcuni genitori “meglio un po’ malato che bocciato”.

Il fenomeno è diffuso in tutto l ‘occidente, non è uno specifico italiano, e sta devastando le attese verso i nostri figli e nipoti, cui per ogni più piccola difficoltà c’è sempre un medico o psicologo che ti dà la diagnosi, la carta e la terapia. Da qui crisi del pedagogico, una conflittualità diffusa tra insegnanti e famiglie, non a caso soprattutto su quanta dispensa e quanto compensa si debba ricevere, al punto che molti PDP sembrano più testi arroccati in una pedagogia difensiva per evitare i molti avvocati in agguato.

La questione BES è quindi tema molto delicato, meriterebbe una discussione scientifica seria, e certamente un ripensamento. Non una conferma così pesante.

Capisco che in questa fase è sembrata “utile” per creare un ombrello protettivo per i buro-pedagoghi, ma il rischio che i nostri ragazzini ucraini vengano considerati BES è alto. Per questo ne parlo qui in modo preoccupato, perché si evitino nella pratica effettiva della loro inclusione equivoci relazionali, culturali e pedagogici.

Ma c’è di più. Questa indicazione a me pare contrastare nettamente con un brano della ormai più volte citata Nota Versari del 24 marzo, quella pedagogica. C’è in quella nota una conclusione che a mio avviso segna una svolta pedagogica autentica versus la medicalizzazione, un cambio di passo che ho commentato con enfasi e come un segno di positiva rottura con i costumi  iatrogeni dilaganti. Perché il lettore capisca meglio cosa intendo pongo qui sotto in doppia colonna per un confronto anche visivo la parte finale della nota pedagogica 24 marzo e il capoverso “operativo” del 14 aprile qui discusso. Le differenze si vedono.

 

 

Nota pedagogica n. 576,  24 marzo 2022

(la chiacchiera?)

Nota “operativa” n. 781, 14 aprile 2022

(la ciccia?)

 

 

In conclusione, merita sottolineare ancora una volta l’importanza dell’accoglienza e dell’inclusione degli studenti profughi nelle nostre comunità scolastiche e delle loro famiglie nella società civile.

Le ferite del corpo sono visibili e richiamano immediatamente l’ospedale e le cure. Le ferite peggiori, tuttavia, sono quelle che non si vedono ad occhio nudo. La scuola è luogo in cui, attraverso molteplici forme di insegnamento e di relazioni educative, si crescono nuove generazioni e, quando purtroppo occorre, si curano le ferite dell’anima. Non con la medicina, non con la terapia, ma con l'umanità, utilizzando gli strumenti della pedagogia e della didattica.

 

 

Piano didattico personalizzato

Utile, per l’inserimento a scuola degli alunni ucraini, il riferimento alla direttiva ministeriale 27 dicembre 2012 in tema di bisogni educativi speciali e ai chiarimenti forniti con nota 22 novembre 2013, prot. n. 2563. Ivi si prevede, per gli studenti neoarrivati in Italia da Paesi di lingua non latina, la definizione di un Piano didattico personalizzato (PDP) e l’attivazione di percorsi personalizzati, oltre che l’adozione di strumenti compensativi e misure dispensative. Nell’ambito dell’esercizio dell’autonomia didattica e organizzativa, le istituzioni scolastiche potranno pure individuare attività di arricchimento formativo consistenti nell’accesso a materiali ed attività didattiche on-line riferibili al curricolo ucraino.

 

 

 

Conclusioni per riaprire

È per me importante che si apra su questi temi una discussione pedagogica franca, che abbia effetti nell’organizzazione curricolare delle scuole (non viceversa). Penso soprattutto al prossimo anno scolastico, in cui c’è un’elevata probabilità che i ragazzini ucraini continuino l’esperienza di “passaggio” in Italia.

E allora dobbiamo dirci con franchezza alcune cose centrali di questa del tutto nuova esperienza di accoglienza. Che cosa vogliamo da loro? Che cosa si aspettano da noi?

<>1.2.3.4.Perché questo scritto in Proteo fare sapere

Pubblico questo mio commento nel sito di Proteo Fare Sapere non per caso.  Il merito è dovuto a Dario Missaglia, suo presidente e amico fin dalla giovinezza, per una ragione più profonda. Nel turbinio tormentato del 2020 Dario fu l’unico a comprendere che le troppe discussioni su mascherine, distanziamento, banchi a rotelle, cancellavano la necessità di parlare prima di tutto di pedagogia. Non lo faceva nessuno. Il suo “protocollo pedagogico” ai tempi del COVID fu l’evento che ha ricostruito la nostra vecchia amicizia. Trovavo in quel suo coraggioso impegno la capacità di guardare oltre il presente e dentro l’educazione come questione centrale non accessoria dopo i banchi e i tamponi. Dario ha avuto il coraggio di una scelta che nessun altro riprese, meno che mai dal Ministero. Ebbe i complimenti sinceri dal presidente Mattarella, ma amaramente va detto che rimase per molti (certo per i buro-pedagoghi) vox clamans in deserto. Gli devo invece qui riconoscere l’onore. E ringraziare.

Condividiamo inoltre insieme la necessità che anche nel caso dei nostri ragazzi ucraini si vada di là dai riti abitudinari, che rinasca un’autonomia pedagogica protagonista, che questa dura esperienza di guerra ci insegni, assieme agli ucraini, a ridare vita e senso anche alla nostra scuola.

Con questo spirito, che vuol essere propositivo, ho qui discusso criticamente queste due note di Stefano Versari, scritte con toni così  diverso.  Sono stato suo collega per anni con una franca amicizia senza pudori quando serve dirci le cose. Ho trovato la sua nota pedagogica una svolta importante che potrebbe avere molti riflessi non solo sul tema dell’accoglienza ucraina. Temo anche però che l’accoglienza prenda una deriva formalistica, che ci fa perdere l’arduo compito di realizzare un’altra scuola, un altro curricolo, un’altra modalità organizzativa, come i tempi ci impongono, che dia senso alle nostre azioni pedagogiche, più che commi-ombrello per cambiare il meno possibile.