Associazione professionale Proteo Fare Sapere
14 gennaio 2022

Pedagogia della cura al tempo del Covid, Raffaele Iosa risponde a Dario Missaglia (vedi "Allarme rosso per infanzia e adolescenza", di Dario Missaglia)

Parte 1    
I FONDAMENTALI

È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante
Antoine de Saint- Exupéry, Il piccolo principe

Ho letto il messaggio di Dario Missaglia, presidente di Proteo, attorno a questa terribile fase di espansione del Covid e di come la scuola sembri aver perso il senso pedagogico del suo agire, travolta da aspre discussioni solo sulle incertezze sanitarie, il caos gestionale, le tifoserie tra “presenza” e “distanza”,  e così via.

Condivido in pieno il suo messaggio per ri-mettere al centro del nostro impegno lo sguardo pedagogico, che rifletta su come stanno i nostri bambini e ragazzi e cosa servirebbe loro come priorità educativa in questa epoca così drammatica.

Già a settembre 2020 ho condiviso il suo Protocollo pedagogico, rimasto per molti una vox clamans in deserto, che richiamava a un diverso impegno per fronteggiare gli effetti psicologici, emotivi, cognitivi dati da una scuola diventata balbettante, semiaperta o più semichiusa. Raccoglievo commenti del tipo “belle parole, ma oggi il problema è un altro”. Un “altro” che si riduceva, poi, alle sedie e ai banchi con le ruote, o alla Dad come fosse il demonio, scordando che spesso la mitica “presenza” è, seguendo il canone della tradizione, noiosa aria fritta, distanza fino all’estraneità.

Ma oggi la situazione educativa, a due anni dall’inizio della pandemia, è quanto mai peggiorata.

Dunque, è necessario il coraggio di riprendere e rilanciare un pensiero pedagogico.

Rispondo qui alla sua proposta superando d’un colpo le mie opinioni su quarantene, mascherine, Dad e così via. Mi soffermo invece sul cuore della scuola rimettendo  al centro la voce pedagogica. Di questo qui scrivo, anche con una vasta serie di proposte operative.

Ho suddiviso questo testo, per facilitare la lettura, in due parti:

  • Parte 1. I fondamentali della pedagogia della cura, per condividere gli aspetti pedagogici essenziali in questa complicatissima fase.
  • Parte 2. Proposte operative di didattica della cura

1. Pedagogia della cura

La relazione educativa è termine generico, registrata nelle norme scolastiche e nei contratti, ma rischia di essere una specie di insalatina di contorno alla recita del dio contenuto/disciplina, per molti  il totem della scuola italiana. Si sente ancora dire: “A scuola si impara, non si impara a vivere; al vivere ci penseranno mamma e babbo o i preti. Al massimo l’io docente spera di trasmettere le sue simpatie, cioè che l’alunno perfetto assomigli a lui/lei”. Ma non è così.

Proviamo invece ad approfondire in modo più rigoroso: l’evento “scuola” si realizza con una relazione sempre asimmetrica tra adulti e bambini/giovani che mette insieme certo i contenuti, ma vissuti come eventi irripetibili (di apprendimento e di vita) entro cui le dimensioni emotive, relazionali, affettive, di sensibilità e di identità si mescolano concretamente realizzando lo sviluppo di ogni persona. La stessa pura “trasmissione di contenuti” avviene come un evento didattico carico di senso non solo di esito, che determina o meno interesse, passione, curiosità. Ma c’è di più: la relazione educativa avviene nel tempo reale hic et nunc  della vita di un bambino e di un adolescente, ne riflette quindi le vicende concrete del vivere in un dato momento storico. Questo attuale momento è, inutile negarlo, del tutto dolorosamente straordinario.

Infine,  c’è una cosa più importante ancora che rende la relazione educativa centrale nel fare scuola: l’art. 3 comma 2 della Costituzione quando ci dice che “compito della Repubblica è di rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione della persona umana”.

La rimozione degli ostacoli in pedagogia si chiama “cura dell’altro come sé”. Cura non perché malato o poveretto, ma perché persona e cittadino. Cioè è quell’ “I CARE” che ci ha insegnato don Milani a Barbiana. Che vuol dire concretamente: ”Mi interessi, non ti mollo, faccio di tutto per te, cerco una soluzione se gli ostacoli ti creano guai”.  È una scuola seria, non lassista!

Se questo è vero in generale, lo è ancora di più in questa terribile fase Covid nella quale i bambini e i ragazzi vivono oggi eventi inediti, di cui non abbiamo memoria comparativa, dentro una tempesta sociale, sanitaria, ed emotiva a fortissimo impatto individuale e collettivo. Si può insegnare una qualsiasi cosa  senza tenerne conto? Anzi: come si fa ad apprendere se dentro di noi c’è la tempesta emotiva?

La relazione educativa dunque non è semplicemente confinata da quel generico modo di dire nel profilo del docente come “competenze psico-pedagogiche”, una tra le altre competenze, ma è elemento strutturale e trasversale del lavoro  docente.

La tempesta emotiva dei nostri bambini e ragazzi oggi, e i rischi iatrogeni
Le ricerche di cui scrive Dario sulle crisi emotive dei nostri bambini e ragazzi sono cospicue: c’è uno stato diffuso di smarrimento, di stress, di alterità, di incertezza, di solitudine, e soprattutto di incertezza sempre più forte sul domani, anche quello più vicino. Quando finirà questa tempesta?

Questo prolungarsi della pandemia aumenta a dismisura le crisi già presenti nel primo anno. 

La tempesta produce anche casi clinici drammatici. In questi mesi ho seguito e raccolto storie di suicidi e tentati suicidi, di autolesionismo, di isolamento fino al fenomeno kikomori, di anoressia o bulimia. Ma questi casi sono solo la punta di un iceberg molto più vasto sotto la superfice di diversi stati emotivi, spesso più  semplici ma sempre più diffusi e ma comunque duri. 

C’è oggi il rischio di pensare che ad ogni “sintomo di dolore”  basti riferirsi al medico o allo psicologo, come se per le sofferenze non servisse la relazione educativa. Il che è paradossale: nel primo periodo del lockdown (primavera 2020) si imparò nei fatti che una Dad che volesse scimmiottare online la lezione tradizionale o la “normalità dell’aula” rischiava due fallimenti: apprendimenti incerti ma anche stati d’animo più tristi, ragazzi  sperduti nella solitudine del video, cui non si chiedeva come stavano nei loro sentimenti, ma di rispondere alle domande curricolari.  Perfino con la buona fede di pensare che se si “evitava” di trattare la condizione esasperata di confinamento questo poteva essere meno doloroso. Insomma una specie di finzione amnesica. Oggi questa contraddizione è più importante da considerare, visto il prolungamento di questa fase pandemica “straordinaria” (intesa come strana) con l’aumento della sofferenza.

Il rischio di una intensa medicalizzazione è elevata. La scuola con la relazione asimmetrica adulti/ ragazzi e quella tra pari sono invece  “luoghi esistenziali” che alleviano con il  “prendersi cura” (o sfasciano con la sua mancanza) i tanti e diversi dolori. Dobbiamo quindi considerare questi prossimi mesi, così ancora incerti e difficili,  come un periodo in cui lo sguardo pedagogico della cura educativa sia la base del nostro agire,  qualsiasi siano le condizioni di lavoro.

Rischiamo altrimenti  una deriva iatrogena, cioè di etichettare oltre il lecito e il giusto le diverse storie dei nostri ragazzi, isolandoli nel cerchio della certificazione, della terapia, della “dispensa”, cioè all’assistenzialismo che produce dipendenza e abbassamento delle attese dell’io.

Penso spesso, per confronto, a come mia mamma e mio papà erano durante la guerra. Avevano tra i 10 e i 15 anni. La guerra è passata dura nelle loro vite. Se un qualche psicologo li avesse visitati  a quei tempi avrebbe trovato molte patologie. Eppure il dopoguerra fu un miracolo: una generazione di bambini maltrattati dalle guerre vissero i tanti celebrati “favolosi 30 anni”.

Ci vuole dunque molta attenzione a non catastrofizzare eventi drammatici della vita. Se ne potrebbe uscire anche migliori, con una maggiore capacità di resilienza davanti alle disavventure. È con questo sguardo che la nostra “cura educativa”  deve saper trovare il giusto equilibrio tra comprendere e sollevare il dolore diffuso nello loro anime, ma anche quella di far leva nelle loro forze interiori, nei loro talenti e passioni, nel saper dare uno scopo al dopo e al dopodomani.

L’io docente nella relazione ai tempi della pandemia
Quale comportamento docente è più opportuno, in questa fase complicata, per gestire una “cura” educativamente saggia?

Trovo giusto che gli insegnanti no-vax non insegnino e non solo per motivi sanitari. Il nostro paese ha scelto di adottare il principio costituzionale della priorità della salute come interesse pubblico (e quindi il vaccino). Da qui ripartiamo.

Ma ho riscontrato anche la presenza, umanamente comprensibile, di docenti che si trovano in una fase emotivamente fragile della loro vita. Aver paura non è una colpa.
Mi raccontano a volte di colleghi ansiosi, che emotivamente si isolano in una fisica e psicologica “distanza” relazionale. Penso che avremmo dovuto capire e aiutare questi colleghi.

Ma ora proviamo a precisare alcune caratteristiche di cura educativa che gli insegnanti dovrebbero, a mio avviso, avere in questa difficile fase. Ne segnalo quattro.

a. Empatia.
Che, come noto non è simpatia o antipatia. È sentire l’altro, fargli capire che lo sentiamo, con discrezione, senza invadenza esagerata. Si può anche chiamare scaffolding, con Bruner. Uno stile relazionale dove si sta dietro non davanti all’altro, che non si obbliga a parlare o fare, ma si incentiva ad agire, perché lui sa che se cade ci siamo noi dietro a tirarlo su. È per la verità un paradigma di tutta la didattica attivistica, utile sempre, ma in questo periodo necessaria.

b. Equilibrio
È opportuno avere uno stile relazionale sereno, sobrio, offrendo sicurezza, evitando eccessi sia di ansia che di superficialità. Non è un periodo facile per nessuno, ma il bambino e il ragazzo devono sentire che l’insegnante è un adulto. E solido.

c. Creatività e flessibilità
Le diverse e complicate situazioni di lavoro di questi mesi ci obbligano ad avere una maggiore flessibilità nell’organizzazione dell’attività scolastica. Potrebbe anche essere la volta buona di sperimentare didattiche innovative, e soprattutto evitare che le regole sanitarie impediscano o riducano forme di didattica attiva. Forse serve una riscoperta dell’attivismo, oggi più importante che mai perché può dare ai ragazzi una più felice pratica di partecipazione, piuttosto che essere passivi ascoltatori chiusi nella loro mascherina. Questa è la pedagogia della cura necessaria.

d. Adattamento
Questa è forse la dote più difficile da spiegare evitando equivoci. La vita a scuola è per forza di cosa diversa dal passato, e giorno per giorno possono cambiare molte cose. Significa per chi ci lavora trovare forme di adattamento positivo e flessibile secondo le diverse avversità. Un eccesso di rigidità e formalismo rende la scuola più dura per tutti, anche per chi insegna.

Affido al secondo articolo, a seguito di questo, sulla didattica della cura l’approfondimento operativo che trovo opportuno offrire per andare dalla riflessione all’azione.

 

Raffaele Iosa


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